Commento al Vangelo, 5 ottobre 2025 – Lc 17,5-10
Questo brano mi ricorda una storiella. Si racconta di un giovane sacerdote che fu trasferito in un piccolo paese e, dopo tre anni di intenso lavoro, riuscì a risollevare le sorti della povera parrocchia. Era diventata una parrocchia piena di vita, un modello per l’intera diocesi. Il vescovo ne fu molto soddisfatto e meravigliato. Durante una visita, onde evitare che il giovane sacerdote si insuperbisse, il vescovo non lo lodò, ma gli disse che si toccava con mano l’opera dello Spirito Santo. Alchè il giovane prete rispose: “Eccellenza, doveva venire qui tre anni fa per vedere com’era la situazione quando lo Spirito Santo lavorava da solo”.
Il senso è chiaro: siamo solo strumenti, certamente non indispensabili, ma utili.
In questa ottica si comprende il significato dell’essere servi inutili. In realtà siamo molto utili, naturalmente sostituibili, ma sempre utili. Diversamente non avrebbe senso il discorso dei carismi, doni dati per l’edificazione, e neppure il principio dell’incarnazione per cui Dio si fa presente nei e con i fratelli. Così pure non avrebbe senso l’invio ad evangelizzare, a fruttificare i talenti ricevuti.
Ciò che il Signore vuole dire è che il nostro servizio non finisce mai, ma soprattutto non si serve per una ricompensa. Servire è ciò che siamo chiamati ed abilitati a fare sull’esempio di Gesù, che si è fatto servo dandoci l’esempio (cfr. Gv 13,14-15).
Ed il miglior modo di servire è non pretendere una ricompensa.
Difatti la parabola allude al servo, che, una volta terminato di pascolare il gregge, si immagina, magari a giusta ragione, di mettersi a tavola, di essere servito e così riposare. Vorremmo che riconoscessero il valore di quello che facciamo fino a dimenticare che, in realtà, si serve in base al bisogno, non in base ad un premio.
Ecco quindi la chiave che possiamo usare per interpretare questo brano: guardare al bisogno, a ciò che è necessario fare ancora e non al lavoro finito ed alla ricompensa.
Guardare al bisogno è un modo di vedere e di vivere per cui la principale preoccupazione è rispondere alle diverse necessità, evitando di diventare sordi e ciechi al grido di aiuto. Guardare al bisogno significa assumere lo sguardo di Gesù, che vedendo la folla provava compassione e quindi si metteva in azione. Vedeva i malati e li guariva, vedeva la sete di amore e li perdonava e consolava, vedeva il cuore povero e lo riempiva di speranza con le parole del Regno, vedeva la fame e moltiplicava il cibo. È assumere il bisogno altrui come criterio di vita e quindi vivere protesi verso gli altri. Di conseguenza ci si sente utili, ma nello stesso tempo disarmati e insufficienti, limitati, spinti a chiedere aiuto agli altri, ma soprattutto al Signore. Si impara a lavorare insieme, si impara a diventare amici con Dio e tra di noi perché il bisogno ci accomuna e ci unisce. Ed allora ci saranno risultati, quelli di una comunione fraterna e della gioia di servire.
Questa è la vera ricompensa che ci spinge a lavorare di più, a coinvolgere di più, a pregare di più, a non sentirci i primi della classe, ma parte della classe. E Dio usa il bisogno per trasformarci in servi che fanno ciò che devono fare: servire.
Contrariamente, quando si pensa alla ricompensa non si guarda più al bisogno; si serve quanto basta alla propria realizzazione. Noi stessi diventiamo il criterio di valutazione ed allora ci sentiamo necessari.
Come il giovane sacerdote della storiella, non tiriamoci indietro di fronte al bisogno, non spaventiamoci delle difficoltà e dei nostri limiti, serviamo, unitamente ai nostri fratelli e alle nostre sorelle, insieme allo Spirito Santo. Servire in questo modo corrisponde allo spirito del Vangelo, questa è la vera ricompensa e il vero riposo.
Forse proprio questa è la fede che abbiamo bisogno: avere montagne da spostare insieme.











