Documentazione

Omelia in occasione della Veglia ecumenica di preghiera “Morire di speranza”, in memoria dei migranti che perdono la vita nei viaggi verso l’Europa

Basilica di Santa Maria in Trastevere, 19 giugno 2024

Ricordiamo e preghiamo. E quanto ci aiuta la preghiera, affidare al Signore questi suoi fratelli più piccoli e quindi nostri fratelli! Tutti piccoli e poveri Cristi. Possiamo forse dimenticare? La Chiesa è una madre. Solo una madre. Qualcuno cerca tante spiegazioni, spesso per offenderla o per usarla. L’unica è questa, la più semplice e vera, quella che descrive – con tutte le povertà e le contraddizioni umane – questa nostra madre che amiamo e che ama. Questa madre, affidata da Gesù a tutti noi, chiede di essere amata, capita, sostenuta, difesa, resa migliore con il nostro amore (ad una madre non servono dichiarazioni o ragionamenti, ma amore, perché dona tutto quello che ha solo per amore). La madre non può dimenticare i suoi figli. Tutti. È questa la dignità infinita con cui riveste la debolezza della vita, fragile e bellissima sempre e per tutti. Come una madre piange, cerca, si dispera per i suoi figli che non sono più e vuole che nessuno si perda più. Non smette di amare i suoi figli – non una statistica, un’indagine, un’audizione – i suoi 2454 figli, persone diventate profughi, che in un anno – da giugno 2023 ad oggi – hanno perso la vita nel Mediterraneo e lungo le vie di terra, cercando di raggiungere l’Europa, alla ricerca di un futuro migliore. In fondo per loro, ma quello diventa anche il nostro futuro e se lo vogliamo migliore. Non li dimentica questa madre perseverante, insistente, molesta per chi giudica e interpreta anche il dolore, ma senza fermarsi e lasciarsi ferire e cambiare. E quanta insolenza! Chi ha perso un figlio lo sa.

La Chiesa è libera di dire che sono stati lasciati soli, che non ci siamo presi di cura di loro, che abbiamo sciupato risorse, addirittura abbiamo lucrato sul loro dolore, tradendo le attese e gli impegni. È libera di rivendicare che le sue lacrime sono lacrime e basta: non sono di una parte, ma per chi ama la parte, l’unica per una madre che mette per davvero al centro la persona, la dignità infinita di questa, unica e speciale come ogni figlio per una madre. Per questo non accetta le inutili spiegazioni e giustificazioni perché l’unica paura che ha è quella di perdere uno dei suoi figli piccoli, di non fare abbastanza, di cercare di fare tutto il possibile.
Guardando la sua e loro sofferenza ritroviamo tutti il senso di umanità e di dignità, per non smarrirlo nel penoso narcisismo, nell’ignoranza volgare e rozza. Perdendo la loro, in realtà, perdiamo la nostra dignità. Una madre è libera di ripetere che l’illegalità si combatte con la legalità. Ricordiamo perché non possiamo abituarci a persone che muoiono nell’angoscia dell’immensità del mare, nel freddo della notte, nel caldo che toglie il respiro del deserto, per la sete, umiliati nel corpo da predoni e schiavisti. I diritti sono sempre tali e la loro vicenda ci ricorda che “una parte dell’umanità vede la propria dignità disconosciuta, disprezzata o calpestata e i suoi diritti fondamentali ignorati o violati” (FT 22). Guai a rendere i diritti riferimenti inutili, tradendo impegni e responsabilità. Il diritto d’asilo in Europa e in Italia continua a navigare insicuro sulle navi di trafficanti, anziché essere tutelato da una operazione europea di soccorso in mare e di intelligente gestione di un fenomeno che non è transitorio, che è sempre stato e le cui proporzioni richiedono lungimiranza, determinazione, visione, governo. Il Mediterraneo che diventa di nessuno rinnega sé stesso e quella legge del mare che da sempre lo ha definito. Speriamo vi sia una diversa attenzione e solidarietà tra i singoli Paesi e dell’Europa davvero unita, ad iniziare dal nuovo Parlamento europeo, perché su questi temi, squisitamente e solamente umanitari, non ci si divida. Solo l’altro giorno 66 persone sono disperse e tra queste 26 bambini, perché erano soprattutto famiglie afghane – e anche questo dovrebbe suscitare una reazione. Questa sera ricorderemo nomi e luoghi, perché ognuno è un pezzo dell’unica e irripetibile immagine di Dio, di quel mosaico straordinario che, se ricomposto nell’amore, permette di capire la bellezza della persona e la bellezza di Dio. Non vogliamo far annegare la nostra umanità e vogliamo localizzare ciascuno nell’immensità dell’abbandono. In tutto il mondo le stime indicano in almeno 8565 le persone morte nei viaggi della speranza nel 2023, il dato più alto in assoluto dal 2016. Sono 1.886 quanti hanno perso la vita nel deserto del Sahara e sulla rotta marittima verso le Canarie. Scappavano dall’inferno e la vita è diventata un inferno.
Leggiamo dal giornale di oggi: “Dieci anni e il cuore già a pezzi. Non ha più accanto sua madre, suo padre e la sua sorellina ed è disperata. Non fa che chiedere di loro, non sa che sono caduti in acqua e hanno dovuto arrendersi allo strapotere del mare; tre dei tanti corpi perduti per sempre nel Mediterraneo. Chi l’ha guardata sbarcare dice che non c’era niente negli occhi lucidi di quella bambina arrivata ieri mattina a Roccella Jonica. Sembravano spenti. Un momento di pausa dal pianto. Uno solo. Poi di nuovo lacrime. Di solitudine ma anche di sofferenza fisica, perché era così disidratata da avere dolori insopportabili alle braccia; sintomi che a inizio soccorso avevano convinto i medici che fossero spezzate. Ce la faremo, era il mantra di quelle famiglie, molte delle quali venivano da posti alla fine dei diritti umani come l’Afghanistan o l’Iran. Ma poi il mare è diventato grosso, sulla barca c’è stata un’esplosione, quella carretta ha cominciato a imbarcare acqua e la speranza è via via naufragata assieme alle vite della povera gente finita in mare. Il comandante della guardia Costiera di Roccella Jonica si è sobbarcato 24 ore di lavoro senza sosta per seguire le operazioni dei suoi uomini. Dice che «i naufraghi stavolta erano tutti particolarmente provati», che «mentre intervieni sei addestrato per mantenere lucidità e professionalità» ma che poi, «quando torni a casa, la sera, porti con te l’umanità con la quale hai avuto a che fare, come l’immagine di quella bambina, così piccola e già così sola e disperata». In Pediatria ci hanno concesso di stare con lei a lungo, le infermiere la coccolano, la trattano da regina. Ma lei non vuole né giocattoli né giocare. Si lamenta e urla perché vuole la mamma e la sorellina». Concetta, della Croce Rossa, sospira. Pausa. Poi dice: «Ho sentito mio marito poco fa. Quando starà bene vorremmo ospitarla da noi, in attesa che si decida sul suo futuro». Un raggio di sole in mezzo al cielo cupo di questo naufragio”.
Ecco il Venerdì Santo che ricordiamo oggi, ma ecco anche l’umanità che vogliamo, anticipo della luce di Pasqua, dell’amoree più forte del male. Una madre, appunto. Essi scappano dall’inferno. Resteremmo noi nell’inferno? Un pezzo di paradiso, di pace, è come quell’immagine di sogno che è in realtà la nostra preghiera, per cui un ragazzo solleva una donna caduta nel deserto, non l’abbandona e la fa volare, portandola con un dito, quello dell’amore. Un pezzo di paradiso, l’inizio della bonaccia è salvare e aiutare a restare. Non facciamo mai mancare un pezzo di paradiso. Lo può fare anche una mamma di Roccella. Lo possiamo tutti.
Ricordiamo l’Ucraina con poco meno di 6 milioni di rifugiati nei Paesi europei e con 4 milioni di profughi interni. Il Sudan, i palestinesi di Gaza, un milione e settecentomila sfollate internamente più volte, la Siria che rimane la più grande crisi di rifugiati al mondo, l’Afghanistan. Pregare ci aiuta a non abituarci, a provare i sentimenti della madre, a vergognarci della durezza del cuore, a tornare umani, perché parlare con Dio amore ci fa trovare quello che abbiamo perduto o che è sepolto sotto tanta paura e banale insipienza. Una madre trova le risposte e aiuta a trovarle: i corridoi umanitari, di lavoro, universitari, una gestione finalmente non emergenziale, la formazione che garantisce diritti e doveri (e bisogna garantire tutti e due) sono le risposte di una madre che non si rassegna, che ha speranza, non la perde e fa vivere, non morire. Perché non si può morire di speranza e se lasciamo che questo avvenga vuol dire che è morta in noi.
Anche Gesù cerca l’altra riva, si mette in viaggio e quindi accetta il rischio di questo. Siamo tutti viaggiatori, pellegrini in questa nostra vita che non può restare dove è perché deve cercare sempre l’altra riva. Gesù sembra che dorma, ma chi dorme in realtà sono i discepoli, agitati e dimentichi perché senza fede oppure banalmente addormentati su sé stessi quando la tempesta non riguarda loro. Spesso ci interroghiamo su dove è finito Dio, su come è possibile che muoiano dei bambini, scandalo per cui i loro angeli sono al cospetto di Dio. Davvero la domanda è un’altra: dove è finito l’uomo, perché Dio lo sappiamo dove sta: sulla barca con loro. E Gesù ci insegna a difendere sempre, ovunque, la dignità inviolabile e infinita dell’essere umano. Sempre, in tutte le età e per tutti.
Giovanni Crisostomo parlava così: “Così agiscono quelli che attraversano il mare grande e spazioso: se la loro nave viene sospinta da venti favorevoli, si allietano di tanta pace, ma se vedono da lontano un’altra imbarcazione in difficoltà, non trascurano la sfortuna di quegli estranei, badando solo al proprio utile: fermano la nave, gettano le ancore, calano le vele, lanciano tavole, gettano corde, affinché chi sta per essere sommerso dalle onde aggrappandosi a una di queste possa sfuggire il naufragio. Imita dunque anche tu i naviganti, o uomo; anche tu navighi un mare grande e spazioso; l’estensione della vita presente: un mare pieno di animali e pirati, pieno di scogli e picchi, un mare agitato da molti marosi e tempeste. E anche in questo mare molti spesso fanno naufragio. Quando dunque vedi qualche navigante che per qualche accidente diabolico sta per perdere il tesoro della sua salvezza, è agitato tra i flutti, sta per sommergersi, ferma la tua nave; anche se ti affretti altrove, preoccupati della sua salvezza, trascurando le tue cose. Chi sta per annegare non può ammettere dilazione o lentezza. Accorri dunque velocemente, strappalo subito dai flutti, metti tutto in movimento per tirarlo su dal profondo della rovina. Anche se mille occupazioni ti sollecitassero, nessuna ti sembri più necessaria della salvezza di un misero, se volessi differirla anche un poco, la violenta tempesta lo perderebbe. In queste disgrazie, dunque, è necessaria molta prontezza; molta prontezza e molta cura sollecita. Siamo dunque pieni di premura verso i nostri fratelli. Questo è il punto principale della nostra vita cristiana, questo è il distintivo che non solo fa vedere la nostra realtà, ma anche corregge e purifica le nostre membra pervertite. Questa è la prova più grande della fede: Da questo infatti tutti conosceranno che siete miei discepoli – è detto – se vi amerete l’un l’altro (Gv 13,35). L’amore sincero si dimostra non mangiando insieme, non parlandosi alla buona, non lodandosi a parole, ma osservando e preoccupandosi di ciò che è utile al prossimo, sorreggendo chi è caduto, tendendo la mano a chi giace incurante della propria salvezza e cercando il bene del prossimo più del proprio. L’amore non guarda ai propri interessi, ma prima che ai propri guarda a quelli del prossimo, per vedere, attraverso quelli, i propri”.
Sia così. Per noi e per loro, sia speranza per loro e per noi. Amen

S.Em. Card. Matteo Maria Zuppi

 

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